Matilde Bellomi, 28 anni
laurea triennale in filosofia Università di Pisa
laurea specialistica in scienza sociali comparate (dipartimento di indianistica) Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (Parigi)
corso di laurea in mediazione interculturale all’Institut national des langues et cultures orientales (Parigi)
Cosa ti ha spinto a scegliere di impegnare un anno della tua vita al servizio degli altri?
Dopo aver avuto per anni un approccio teorico alla questione interculturale, ho sentito l’esigenza di immergermi in un contesto completamente altro e di provare a mettere in pratica in prima persona i principi di intercultura e cooperazione approfonditi e teorizzati nei miei studi universitari. Ho voluto colmare lo scarto tra principio e realtà, tra convinzione ed impegno in prima persona.
E perché hai scelto il servizio civile internazionale?
Ho scelto il Servizio civile internazionale perché condivido la dimensione dell’obiezione di coscienza e della difesa del proprio Stato intesa come rafforzamento della società civile e non come difesa delle frontiere nazionali. Concepisco il prendersi cura della propria nazione come impegno quotidiano per la costruzione di una società più solidale e fondata su principi di giustizia reale e concreta. Concepisco l’educazione come la base della società e come conditio sine qua non dello sviluppo del mio paese. Quello che mi fa paura non sono le invasioni dei confini nazionali, non è lo straniero completamente disumanizzato da certa parte politica e costruito simbolicamente come minaccia al benessere nazionale. Quello che temo è il disfacimento delle relazioni sociali, lo smantellamento dello stato sociale, il disamore per la politica il distacco dalle istituzioni. Temo l’opposizione costruita a scopo populistico tra politica corrotta e popolo innocente e l’indifferenza che ne deriva. Penso che il servizio civile possa essere un’opportunità per contribuire attivamente allo sviluppo sociale e umano del proprio paese, alla ricostruzione di legami sociali in una società minata dall’individualismo e dalla diffidenza verso
l’Altro, qualsiasi forma esso possa prendere. Penso che dedicare un anno a questo tipo di impegno possa darmi l’opportunità di imparare molto, di approfondire alcune cose e relativizzarne altre, penso che la mia esperienza individuale e limitata possa fondersi a quella di altri e che il tutto possa prendere un senso ad un livello nazionale. Molte convinzioni, principi, piccoli atti concreti possono materializzarsi in una buona pratica collettiva. Intendo quindi il servizio civile anche come pratica politica, nel senso più alto che si possa attribuire a questa bella parola bistrattata.
Che valore/senso dai al servizio internazionale proposto da Caritas Italiana in collaborazione con le Caritas diocesane?
Penso che il servizio civile internazionale proposto da Caritas Italiana possa fungere da laboratorio di idee e buone pratiche per le Caritas diocesane. La presenza di Caschi Bianchi in altri paesi può aiutare le Caritas Diocesane di origine ad aprirsi rispetto ad alcuni temi e ad alcune modalità e può favorire la creazione di rapporti tra le diverse realtà diocesane così come lo scambio di buoni modelli tra le diverse Caritas, nel paese d’origine così come in Italia.
Sei stata destinata in Albania: Dove fai servizio? Di cosa ti occupi? Quali le difficoltà?
Sono volontaria in Albania, a Baqel, un minuscolo villaggio nella piana umida della Zadrima. La situazione socio‐politica del Nord dell’Albania è piuttosto complessa. La nostra zona, in particolare, è affetta da diversi tipi di problemi. I più importanti sono forse l’altissimo tasso di disoccupazione, la corruzione capillare e il disequilibrio tra la condizione dell’uomo e della donna che comporta percentuali inquietanti di violenza domestica.
Come riesci ad intessere relazioni con la popolazione locale?
Fin dal primo giorno mi è risultato molto facile intessere relazioni con la popolazione locale. Da un lato grazie alla proverbiale ospitalità e disponibilità del popolo albanese (un proverbio albanese dice che la casa è di dio e dell’ospite) e dall’altro grazie alle ridottissime dimensioni del villaggio. Gli abitanti di Baqel sono circa duecento, impossibile perciò non rivolgere un saluto all’uomo che esce all’alba con la falce, un abbraccio alla vecchina carica di legna di fronte casa, alla bimba che porta le mucche al pascolo o alla vicina che per ore fila la lana tra i suoi due maiali e le galline.
Come ti sei trovata? Quale impatto ha avuto su di te emotivamente il vivere in un paese tanto diverso dal nostro?
Io e la mia collega (Federica) siamo state veramente sorprese dall’accoglienza calorosa che ci hanno riservato i « baqelore ». Il primo giorno siamo state invitate a prendere il caffé dai vicini, abbiamo ricevuto visite di benvenuto e quotidianamente formaggi, uova e pane fragrante in regalo.
Onestamente, non ho avuto difficoltà di adattamento, dopo molti anni in una grande città sentivo infatti il bisogno di vivere a contatto con la natura e con ritmi di vita più semplici. La presenza di Federica ha sicuramente reso tutto più semplice, poiché, molto affini, ci siamo facilitate l’inserimento nella nuova realtà a vicenda.
Sei rientrata da poco in Italia per il corso di metà servizio…ti restano 8 mesi di servizio in Albania, fai delle previsioni?
Per il momento rimando le previsioni a dopo le vacanze estive. Per ora il futuro rimane roseo seppur incerto e fumoso.
Un messaggio ai tuoi coetanei affinché scelgano il servizio civile e soprattutto i Caschi Bianchi
Penso che il servizio civile sia davvero un’ottima occasione per vivere un anno in un paese diverso ed avere il tempo di confrontarsi con diversi aspetti della vita. Il fatto di essere inseriti in una realtà lavorativa diversa da quelle a cui siamo magari abituati ci permette, per esempio, di vivere un confronto interculturale quotidiano profondo che può fare emergere moltissimi elementi di diversità e anche delle difficoltà. Tutto ciò ci spinge a riconsiderare e decostruire i nostri modelli di realtà, le nostre strutture relazionali e i nostri sistemi di senso, la nostra concezione del tempo ‐ tutte dimensioni che diamo per vere e assolute prima di confrontarci con una realtà altra. Penso che l’anno di servizio civile equivalga ad un anno di ginnastica spirituale e intellettuale. Costantemente stimolati siamo invitati a rimetterci in gioco e ad apprendere. Si apprendono nuove parole, nuovi sapori, nuovi rituali, nuovi passi di danza, che in Albania, ad esempio, ritmano ogni incontro sociale, ufficiale e non. Può essere una recita scolastica, la fine di campo estivo, un matrimonio o una celebrazione ufficiale, senza un passo di tallava e il suono arcaico di un qifteli non si chiude nessun momento collettivo. In un anno di servizio civile si impara, ci si confronta, si offre, in qualche modo si crea una vita
nuova, si cambia ci arricchisce…e ci si diverte.